Scienza e medicina

Il talidomide e il potere dell'industria farmaceutica

Il talidomide e il potere dell'industria farmaceutica
  • Editore: Feltrinelli
  • Pubblicazione: 31 maggio 2021
  • Pagine: 248

Questo libro, pubblicato per la prima volta nel gennaio 1973, racconta la vicenda degli effetti nefasti del talidomide, un farmaco per gestanti che si rivelò teratogeno: alcune delle donne che lo avevano assunto in gravidanza diedero alla luce bambini focomelici, privi di arti sviluppati o con altre gravissime menomazioni. Gli autori ne ripercorrono l'intera storia, andando a descrivere l’immenso potere dell'industria farmaceutica, incentrato unicamente su interessi economici.
Questa edizione, selezionata da Giulio Maccacaro per la collana “Medicina e potere” della Feltrinelli, presenta una prefazione dello stesso Maccacaro dal titolo "E in Italia?" dove viene eseguita un'interessante analisi sulla situazione italiana. Basterebbero queste poche pagine a far comprendere cosa furono, e sono, le istituzioni sanitarie italiane: totale asservimento ad interessi privatistici, negazione del danno e disinteresse per i propri cittadini.

Abbiamo deciso di proporvi l’intera prefazione di Maccacaro, contenente un breve focus finale sul vaccino anti-poliomielite ma è necessaria una nostra brevissima analisi sul testo di Maccacaro.
Il vaccino anti-polio Sabin, lodato dall’autore della prefazione, funzionava bene, talmente bene che causava e tuttora causa (nei Paesi del mondo in cui è tutt'ora in uso) la paralisi flaccida da poliomielite.
Ai tempo l’analisi del rischio-beneficio era spudoratamente a favore della vaccinazione di massa anche perché, come leggerete, se l’Italia non raccoglieva dati sui danneggiati da talidomide, secondo voi lo faceva su quelli da vaccino anti-polio?
Nel corso degli anni poi, il Sabin fu soppiantato dal Salk poiché il primo, causava troppi problemi e reazioni avverse e oggi in occidente non viene utilizzato.
Ricordiamo altresì che attualmente la quasi totalità dei casi di poliomielite nel mondo, sono derivati da virus vaccinali, proprio del vaccino Sabin. Le stesse notizie che ogni tanto sentiamo, di test sulle acque reflue delle grandi città e sulla presenza di poliovirus, fanno riferimento a ceppi "vaccino-derivati" ovvero dalla secrezione, attraverso urine e feci, di porzioni di virus, da parte di soggetti vaccinati col "vecchio" Sabin.
Va da sé che le lodi del Maccacaro nei confronti di questo vaccino non sono condivise da Corvelva, ma ci sembrava corretto proporre lo scritto nella sua versione originale.

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E in Italia?

“E così, ufficialmente parlando, il lupo è innocente come un agnello.”
Dylan Thomas

Lo studente, diciottenne, che si è appena iscritto in una nostra Università per laurearsi medico tra sei anni, può intendere il titolo di questo libro? Conosce il significato di “talidomide”? Immagina il “potere dell’industria farmaceutica"? Io, suo insegnante, posso rispondere - negativamente - per lui che era appena scolaro delle elementari quando termini come "talidomide" e "focomelia,” nomi come Chemie Grünenthal e Contergan facevano titolo sui giornali di tutto il mondo.

Tutto il mondo, infatti, inorridì - oltre dieci anni fa - nell’apprendere che per effetto di uno psicofarmaco sedativo (il talidomide), somministrato a donne nei primi mesi di gravidanza, erano nati migliaia di bambini colpiti da mancato sviluppo degli arti (focomelia) o da altre gravissime deformità. Quel farmaco era stato introdotto sul mercato tedesco, con il nome di Contergan, da un’industria farmaceutica (la Chemie Grünenthal di Stolberg, nella Germania Occidentale) che ne assicurava e propagandava l’assoluta innocuità anche quando gliene erano già noti gli effetti tossici.

La stessa ditta aveva curato, per incrementare i propri profitti, la diffusione del talidomide in diversi altri paesi disseminando, così, in ciascuno la sventura dei bambini e la disperazione delle famiglie: 6.000 nella Germania Occidentale, 400 in Gran Bretagna, 100 in Svezia, ed altri altrove per un totale compreso, secondo caute stime, tra 8.000 e 10.000 casi.

Tuttavia, una così orrenda catastrofe si sarebbe compiuta e celata nel pianto di migliaia di madri, ciascuna convinta di una propria singolare sventura, se alcuni medici e legali non l’avessero portata ad evidenza, dimostrandone le cause e denunciandone le responsabilità. A loro e alla parte migliore della stampa straniera si deve se la tragedia del talidomide ha avuto fine e ha, forse, insegnato ad evitarne di analoghe. Ma contro di loro si schierarono a suo tempo l’establishment medico, abituato a compiacere l'industria farmaceutica, ed il potere di questa. La Chemie Grünenthal non lasciò nulla di intentato per nascondere la verità, acquisire il silenzio di chi la conosceva, intimidire l’onestà di chi la dichiarava. Il suo ufficio legale arrivò ad assumere un detective per indagare sulla vita privata e le inclinazioni politiche dei medici che avevano criticato gli effetti tossici del talidomide (“Il padre del Dr. B.,” sta scritto in uno dei rapporti di questo detective, “è un ex comunista…”). È giusto ricordare tutto ciò per dire subito che gli autori di questo libro sono anche valorosi protagonisti di quella vicenda.

Henning Sjöström - oggi famoso avvocato, ma figlio di contadini, contadino lui stesso e poi minatore mentre studiava per laurearsi - e Robert Nilsson - giovanissimo e brillante biochimico dell’Università di Stoccolma che ha rinunciato ad alcuni anni della sua carriera per la causa dei piccoli focomelici - sono i due uomini che hanno condotto, in Svezia, una strenua battaglia per ottenere un indennizzo alle vittime del talidomide. E l’hanno vinta nonostante lo scetticismo dei colleghi e l’ostilità delle corporazioni professionali.

Come Sjöström e Nilsson in Svezia, così altri medici e legali disinteressati e coraggiosi si sono battuti in Germania, in Gran Bretagna ed altrove per i bambini talidomidici, per le loro madri, per le loro famiglie.

Ma in Italia? Mi posi per la prima volta tale domanda quando, sul finire della scorsa primavera, mi fu detto che stavo per ricevere il manoscritto di questo libro, ancora inedito, affinché valutassi l'opportunità di pubblicarlo nella nuova collana "Medicina e Potere” della Casa editrice Feltrinelli. La posi a me e la proposi ad altri: condussi, cioè, un piccolo sondaggio di opinione sull’argomento "talidomide" accennandone - così come se ne dava l'occasione - a colleghi medici, conoscenti “farmaceutici” ed amici diversi, tra i quali alcuni giornalisti.

Queste le opinioni raccolte e largamente condivise:

  1. La tragedia del talidomide appartiene, fortunatamente, al passato: oltre dieci anni, ormai, ce ne separano;
  2. colpì molti paesi, ma il nostro ne fu risparmiato: non si conoscono casi italiani;
  3. verosimilmente il talidomide, nato in Germania, non ebbe vita in Italia, cioè non fu prodotto e venduto dalla nostra industria farmaceutica.

Ebbene, nulla di tutto ciò è vero: come intendo dimostrare con l’aiuto di alcuni dati riferiti da Sjöström e Nilsson e di altri, italiani, rinvenuti nel frattempo.

Alle pagine 30-32 di questo libro il lettore trova l’elenco delle specialità medicinali a base di talidomide che furono vendute intorno al 1960 sui mercati europei e canadese. Si può riassumerlo, come segue, per nazionalità:

 

Sembra, dunque - scorrendo tale elenco compilato dall’American Pharmaceutical Association - che il nostro paese abbia prodotto 10 su 34 (circa 30%) delle specialità medicinali talidomidiche vendute in Europa e ciò ad opera di 7 su 16 (circa 44%) delle industrie farmaceutiche, di varia nazionalità, impegnate in questa produzione.

Nessuno di coloro cui ho comunicato questi dati ha espresso meno che sorpresa, alcuni incredulità, altri ha avanzato l’ipotesi che l’elenco contenga, per l’Italia, nomi realmente depositati di prodotti effettivamente non realizzati: quindi mai venduti né assunti.

Di questa ipotesi, così rasserenante, si imponeva tuttavia qualche verifica, intesa a stabilire se le 10 specialità talidomidiche sono mai state veramente in commercio, cioè vendute nelle farmacie italiane, ed in tal caso: per quanto tempo? tra quali date?

La risposta a tali domande è da cercarsi tra le pagine de ”L’informatore farmaceutico, Annuario Italiano dei Medicamenti e dei Laboratori” giunto nel 1972 alla sua XXXII edizione: una cospicua pubblicazione che elenca e descrive tutte le specialità medicinali ammesse alla vendita ed in commercio in Italia, di anno in anno, indicandone la composizione, il prezzo, la ditta produttrice, ecc.. Riassumo nella tabella di p. XI i risultati della consultazione dei sei volumi corrispondenti agli anni dal 1958 al 1963.

Si noti che dalla tabella è leggibile soltanto il tempo di vendita e di consumo di ciascuna delle specialità elencate: non il volume del consumo né quello, ovviamente correlato, della produzione. Dato il notevole ed anche maggiore interesse di questi ultimi dati, ne ho condotta la ricerca in varie sedi, ma senza trovarne traccia. Non esistono, pare, organi di rilevazione - statali o comunque pubblici - in grado di fornire tali notizie, per quegli anni e per quei prodotti. Esistono, naturalmente, gli archivi privati dei produttori, ma la loro consultazione è piuttosto riservata. 

 

Tuttavia, non dovrebbe ritenersi troppo azzardato congetturare che la SMIT (oggi UCB-SMIT) di Torino fosse abbastanza soddisfatta dei suoi profitti quando - dopo aver aperto la strada italiana al talidomide con l'Imidene nel 1959 - chiese ed ottenne l’autorizzazione a produrne e venderne una variante aggravata da barbiturici, l'Imidene Ipnotico, mantenendo entrambi i prodotti sul mercato fino al 1962. Ma, allora, uguali considerazioni valgono per la LIVSA VAILLANT di Milano, che, presentando il suo Quietoplex nel 1960, volle subito affiancargli il Gastrimide. Ed anche per la BIOCORFA, pure di Milano, che nella propizia scia tracciata dal suo Quetimid e dagli altri sette prodotti della concorrenza, ritenne che valesse ancora la pena di vararne un nono, l'Ulcerfen, nel 1961, quando ormai cominciavano a correre pel mondo le notizie sugli effetti tossici del talidomide.

Che pensare, dunque? A questo punto della mia piccola ricerca - e della mia grande sorpresa - avevo di fronte a me nove specialità talidomidiche, dimostratamente vendute in Italia tra il 1959 ed il 1962, ed almeno altrettante assicurazioni che in Italia non si erano dati casi di focomelia talidomidica.

Poiché il primo termine della contraddizione era ormai accertato come dato di fatto, non rimaneva che dubitare del secondo. Soprattutto dopo che a pagina 127 di questo libro una breve frase mi aveva detto ciò che da altri non avevo appreso:

Malgrado il verificarsi di casi di focomelia a Torino nel giugno 1962, alcuni di questi prodotti vennero ritirati in Italia solo nel settembre 1962.

Non un’indicazione di più, ma tre amici - un puericultore, un anatomo-patologo e un giornalista - mi aiutarono a percorrere subito questa traccia fino all’origine. Il 15 giugno 1962 i professori Maria Gomirato-Sandrucci, direttore dell’Istituto di Puericultura, e Ruggero Ceppellini, direttore dell’Istituto di Genetica Medica dell’Università di Torino, avevano letto all’Accademia di Medicina della stessa città una comunicazione nel corso della quale dichiaravano:

Nella nostra casistica degli anni passati non sono mancati casi di amelia e di focomelia che sono giunti alla nostra osservazione col ritmo di un caso ogni due anni. Data questa rarità siamo stati colpiti dal fatto che in poco piti di un mese (dal 7 aprile al 16 maggio di questo anno), siano stati ricoverati presso il Centro Immaturi della nostra Clinica ben cinque neonati amelici e focomelici provenienti da Torino e da fuori Torino.

Sei mesi dopo gli stessi autori pubblicavano una più ampia e dettagliata relazione sugli stessi casi che intanto erano saliti a 7. A conclusione di una documentata ed attenta disamina di tutte le possibili cause che avrebbero potuto spiegare così eccezionale frequenza di una malformazione congenita tanto rara, Gomirato-Sandrucci e Ceppellini dettano queste righe che meritano di essere trascritte e meditate:

È risultato che 4 madri avevano sicuramente introdotto un medicamento a base di imide dell'acido n-ftalil-glutammico. La sicurezza di questa somministrazione deriva sia dall’ammissione spontanea del nome del farmaco da parte della donna, sia dall'aver riconosciuto il flacone fra molti altri, sia infine dalla conferma del medico curante che aveva prescritto il farmaco. Si trattava in tutti i casi della stessa confezione commerciale in pastiglie contenenti ciascuna 50 mg di imide dell'acido n-ftalil-glutammico. In un quinto caso non abbiamo potuto avere la sicurezza assoluta della somministrazione del medicamento in quanto la donna ha sicuramente introdotto fra il primo ed il secondo mese di gravidanza alcune pastiglie sedative di cui non ricorda il nome ed anche il medico curante è piuttosto incerto sulla eventuale prescrizione di un medicamento a base di imide dell’acido n-ftalil-glutammico. Negli altri due casi (1 e 2) l’introduzione del medicamento in questione è stata decisamente negata sia dalle madri che dai medici curanti.

In queste righe non ricorre mai il nome “talidomide” ma la sua versione chimica in extenso, "imide dell’acido n-ftalil- glutammico”, ignota al pubblico, al medico generico ed anche allo specialista dedito soprattutto all’esercizio professionale. Per tutti costoro i soli nomi significanti e memorizzabili sono quelli delle specialità (Imidene, Sedimide, Profarmil, ecc.) che rimandano ai nomi delle rispettive industrie produttrici (SMIT, MUGOLIO, PROFARMI, ecc.) ma di essi non c’è traccia nella relazione dei due studiosi di Torino. Da tale relazione (pubblicata il 3 novembre 1962) si apprende ancora che, dei quattro bimbi la cui madre aveva certamente assunto talidomide nei primi mesi di gravidanza, due erano viventi alla data di stesura del testo: di una, Antonella B., nata il 3 aprite 1962 da un operaio e da una casalinga, e perfettamente formata fuorché per la totale mancanza delle braccia, si dice:

Decorso: la bambina ha sempre goduto buona salute ed ha presentato un regolare soddisfacente accrescimento. Attualmente è ricoverata in buone condizioni di salute presso un Istituto assistenziale.

Dell’altro, Renato A., nato il 7 agosto 1962 da un operaio e da una casalinga, portatore di gravi deformazioni a tutti e quattro gli arti, ma normale per quanto riguarda gli organi vitali, si dice:

Decorso: il bambino non ha presentato alcun sintomo riferibile ad eventuali altre malformazioni oltre quelle segnalate agli arti. L’accrescimento è stato piuttosto lento ma regolare. Il bambino è tuttora degente nel nostro Istituto presentando ancora un notevole deficit di peso rispetto alla norma.

Che ne è oggi di Renato e di Antonella? Non lo so, ma lo chiedo. Così come non sapevo e mi sono chiesto - a questo punto di una ricerca che mi portava di sorpresa in sorpresa ma anche di angoscia in angoscia - se la circoscritta epidemia torinese di malformazioni da talidomide fosse, come pareva dalla lettura dei testi citati, veramente l’unica verificatasi in Italia; ovvero se altri bambini fossero nati orrendamente mutilati e deformi, per effetto del malefico farmaco, anche altrove: e dove, allora, e quanti?

Nel tentativo di trovare una risposta a queste domande, scrissi, due mesi fa, ad oltre un centinaio di colleghi, titolari nelle diverse Facoltà mediche italiane di cattedre quali: ostetricia e ginecologia, pediatria, puericultura, farmacologia ed altre aventi attinenza scientifica e pratica con il problema della focomelia talidomidica. Chiesi semplicemente a ciascuno di loro di segnalarmi, ove ne avesse avuto conoscenza, dati e casi di bambini colpiti.

Trentacinque colleghi, cui qui rinnovo il mio ringraziamento, hanno risposto da diverse parti d’Italia: la maggior parte per dirmi di non aver mai avuto notizia che in Italia si fossero verificati casi di focomelia talidomidica, alcuni per segnalarmi le osservazioni dei due studiosi torinesi già ricordati, altri ancora per darmi indicazioni che ignoravo.

Tra queste ultime emerge, perché ne raccoglie altre, una rassegna, compilata in collaborazione,(6) del professor Cesare Torricelli, direttore dell'Istituto Provinciale di Protezione ed Assistenza Infanzia di Milano, il quale esordisce così:

Con l’aprile 1963 anche in Italia sono passati nove mesi dal ritiro dal commercio di preparati a base di Talidomide. In questa rassegna ci proponiamo pertanto di esporre sull’argomento delle malformazioni congenite attribuite alla Talidomide le nozioni tratte dall'esperienza della maggior parte degli Autori e dalla nostra diretta osservazione.

Torricelli, infatti, prima di descrivere i casi da lui direttamente studiati, ci informa di altri di “sicura eziologia talidomidica,” cioè certamente causati da una di quelle specialità - purtroppo mai nominate in relazione ai singoli casi - che ho elencate nella tabella: uno a Siracusa ed uno a Palermo, uno a Portici (Napoli), uno a Modena, uno a Roma, uno a Busseto (Parma), uno a Massalombarda (Ravenna), uno a Sassuolo (Modena), altri due a Torino, uno ad Alessandria, uno a Mestre, uno a Pavia.

Alla menzione di questi casi segue la descrizione di altri diciannove giunti all'Istituto milanese dalla città e dintorni; per undici d’essi... è stato dimostrato, con sicurezza, l’uso di preparati talidomidici assunti sempre entro i primi tre mesi di gravidanza.

Per gli altri casi tale uso non è documentato con sufficiente certezza, ma nemmeno escluso: "è degno di rilievo," sottolineano anzi gli autori,

che anche in tutti questi ultimi casi i disturbi simpatici nei primi mesi della gravidanza erano stati particolarmente intensi e che le madri avevano fatto uso di numerosi preparati, specie "sedativi."

Torricelli conclude la sua rassegna affermando che in Italia

il numero di nati malformati di sospetta eziologia talidomidica è stato esiguo: 50 casi, di cui 27 ad eziologia accertata, 11 dei quali a Milano.

Ma tutto induce a credere che questa stima possa essere errata soltanto per difetto. Infatti lo stesso Torricelli nota:

[queste] sono le cifre che noi abbiamo raccolto direttamente non essendoci pervenuta alcuna risposta dal Ministero della Sanità da noi interpellato.

Né risulta, dopo dieci anni, che lo stesso Ministero abbia mai pubblicato un rapporto sul funesto accaduto. Ancora va detto che la rassegna di Torricelli, pur essendo la più estesa apparsa in Italia, non annovera alcune segnalazioni - forse perché emerse successivamente o in sedi particolari - di altri casi accertati. Infine è da notare la singolare concentrazione della casistica in due sole città, Milano e Torino, cui fanno riscontro l’assenza di casi in altri centri di paragonabili dimensioni demografiche e la disseminazione periferica e sporadica di singoli altri. Che pensare, dunque, di questi focolai epidemici nel capoluogo piemontese ed in quello lombardo? Reali o apparenti? Come interpretarli in un caso e come nell’altro? Dalla risposta a tali quesiti può dipendere una rivalutazione delle dimensioni statistiche del fenomeno.

Se si è trattato veramente di una maggior incidenza della focomelia talidomidica nelle due città subalpine, non rimane che supporre ivi una maggior prescrizione del farmaco in generale e alle donne gestanti in particolare. Ma questa spiegazione ne richiederebbe un'altra - per esempio, sul comportamento dei medici e dei farmacisti - che io non so vedere a meno di attribuire qualche significato all’essere Torino sede della SMIT, l’industria farmaceutica che ha aperto la frontiera italiana al talidomide, e Milano sede di altre quattro industrie farmaceutiche che si sono tosto lanciate all'inseguimento della SMIT e dei suoi talidomidici profitti.

Effettivamente queste circostanze possono far supporre una maggiore e più suadente presenza propagandistica dei produttori presso i clinici ed i medici delle rispettive città e province: chi sa di queste cose e conosce certe mode terapeutiche locali, altrimenti inspiegabili, non può dimettere facilmente tale ipotesi. Ma egli sa anche che la permeazione pubblicitaria (cui corrisponde almeno il 30% del prezzo di un farmaco) di cui l’industria farmaceutica è capace travalica ben presto i confini locali o regionali per raggiungere persuasivamente anche i medici più lontani. Pertanto un farmaco che, a quanto sembra, arriva e nuoce a Siracusa ma non a Bari, a Sassuolo ma non a Bologna, a Mestre ma non a Padova - per concentrarsi casisticamente a Torino e a Milano - lascia qualche perplessità irrisolta.

Che induce a riflettere sull’altra eventualità sopra prospettata: forse, l'eccezionalità dei focolai di Torino e di Milano è soltanto apparente, nel senso che nelle due città sarebbero esistite particolari condizioni non già per l’accensione delle due piccole epidemie ma per l'attenzione necessaria al loro rilievo. Altrove, una minore o meno preparata attenzione non avrebbe colto un fenomeno delle stesse dimensioni o non lo avrebbe interpretato correttamente nelle sue cause. Ben s’accorda con questa congettura la sorprendente constatazione che un gran numero di colleghi qualificati ritenga e risponda, ancor oggi, di non aver memoria di casi o nozione di lavori scientifici dai quali risulti che anche in Italia si è data e ripetuta la focomelia talidomidica. D’altra parte sono gli stessi studiosi di Torino e di Milano ad informarci come singolari circostanze, verosimilmente non datesi per altri, avessero attratto e stimolato il loro interesse medico e scientifico sul problema: quelli già da tempo dediti ad afferenti ricerche e questi(10) fervidamente intenti a preparare una relazione congressuale molto impegnativa sullo stesso argomento!

Avanzo quindi la ragionevole ipotesi che nel capoluogo piemontese ed in quello lombardo siano stati riconosciuti ma non si siano prodotti più che altrove casi di malformazione da talidomide; inclino, cioè, a credere che altrove si siano prodotti altrettanti casi, in rapporto al numero dei nati, ma ne siano stati riconosciuti di meno.

Si noti che l'oggetto del riconoscimento non è - meglio: non sarebbe stata, allora - la focomelia od altra malformazione congenita in quanto tale, perché quelle così gravi di cui qui si parla sono evidenti anche all'occhio di una levatrice: è - meglio: avrebbe dovuto essere - il rapporto tra la malformazione e l'uso di talidomide nei primi mesi della gravidanza. Rapporto che, per essere individuato, ove fosse, avrebbe richiesto alcune cose. Nei medici che ne avevano l’occasione: un'adeguata informazione sul problema, la capacità di indagarlo, la volontà di risolverlo. Nelle madri che ne avevano avuto la sventura: il ricordo dei farmaci assunti in gravidanza, la dimostrazione de visu di tutti quelli imputati, una franca spiegazione sul significato dell’indagine. Non credo che queste condizioni si siano verificate sempre e nemmeno spesso là dove nasceva un bimbo focomelico da talidomide: però l'inadempienza di una sola bastava a togliere per sempre quel bimbo dal conto delle vittime.

Infatti, se la frequenza delle malformazioni da talidomide nella popolazione italiana fosse stimata complessivamente al livello di un solo caso per 10.000 nati per il triennio 1960-1962, si sarebbero prodotti ma non necessariamente riconosciuti, per ognuno degli stessi anni, 95 nuovi casi, anziché i 50 complessivi segnalati da Torricelli. Naturalmente non è più possibile oggi alcuna verifica, ma soltanto una constatazione: le deformazioni congenite dell’apparato locomotore ed in particolare le aplasie congenite degli arti mostrano un improvviso marcato incremento numerico su scala nazionale (rispettivamente di centinaia e di decine di casi per anno) proprio a partire dal 1961, come negli altri paesi colpiti dalla tragedia talidomidica.

Non è, dunque, vero - per tornare ai risultati dell’iniziale sondaggio: corrispondenti, come ho ulteriormente verificato, ad un'errata convinzione, significativamente assolutoria, molto diffusa nell’opinione pubblica e persino nella larga maggioranza di quella medica - non è, dunque, vero che l’industria farmaceutica italiana non abbia prodotto e commerciato, in varie forme e sotto diversi nomi, il funesto talidomide.

Soprattutto non è vero che il nostro paese non sia stato colpito dal flagello delle focomelie e di altre malformazioni conseguenti all’assunzione di quel farmaco.

Ed infine non è vero, anzi è verosimilmente lontano dalla realtà, che in Italia in totale si superano di poco i 20 casi, cifra fortunatamente assai al di sotto dei 10.000 casi circa che rappresenterebbero il totale di casi osservati in tutto il mondo.

È certo che il fenomeno non ha avuto da noi le stesse dimensioni che in Germania Occidentale ed è probabile che sia rimasto al di sotto di quelle della Gran Bretagna; ma nulla esclude che possa paragonare i suoi valori assoluti a quelli della Svezia dove l’Associazione Medica Svedese ha stimato che i bambini lesi dal talidomide siano stati circa 150 dei quali 6 su 10 sarebbero morti e gli altri sopravvissuti.

È a questo punto, al punto in cui si decide della vita ulteriore di questi quattro bambini, che il quadro italiano si oscura angosciosamente. Per rendersene conto non occorre più ragionare in termini statistici: soprattutto se tra questi termini, apparentemente consolatorio, può essere smarrita l’identità umana dei singoli casi. Atteniamoci invece e strettamente ai dati pubblicati, decidiamo di credere che non ne esistano e non ne siano esistiti altri.

Ma la domanda già posta rimane e si rinnova: che ne è stato di Antonella B. e di Renato A., i bimbi superstiti di Torino? Che ne è stato di Giuseppina R., di Giorgio P., di Giuseppina F., di Maria V., di Patrizia D. e di Giuseppina G., i bimbi superstiti di Milano?

Alcuni di loro senza braccia, altri senza gambe, una senza i quattro arti: scomparsi ormai? Ed allora bisogna chiedere e si ha il diritto di sapere perché tutti i bambini talidomidici italiani sono morti, mentre vivono tuttora e crescono il 40% di quelli inglesi, svedesi e tedeschi. Oppure sono vivi ed allora bisogna chiedere e si ha il diritto di sapere come e dove si svolge la loro esistenza, chi ne ha cura e in che modo, chi provvede e in quale misura alle loro enormi necessità, chi li accompagna ed assiste in questa fase, ancora più terribile, della loro vita: l’ingresso nell’adolescenza? Perché per loro la tragedia del talidomide non appartiene al passato, ma vive e cresce con loro, facendosi - ad ogni giorno nuovo, ad ogni altra età - più crudele e definitiva. Per tanta offesa, per tanta pena non c'è riparazione possibile né indennizzo adeguato. Nessuna umana destituzione ammette una restituzione venale. Ma impone, a chi ne porti l'obiettiva responsabilità, almeno il dovere di mitigarne le conseguenze con ogni mezzo e misura.

In Svezia - soprattutto per merito di Sjöström e di Nilsson, ma anche di vigorose pressioni esercitate dalla stampa e dall'opinione pubblica - L’Astra Company, industria produttrice di specialità medicinali contenenti talidomide, è stata indotta a versare, per ogni bimbo colpito dagli effetti del farmaco, la rendita annua corrispondente, al netto di inflazione, a un capitale di 150 milioni di lire.
In Gran Bretagna, la Distillers Co. Ltd., dopo aver sottoscritto un analogo impegno, pur per un indennizzo minore, e aver tentato ogni cavillo onde evitare di onorarlo, è stata investita negli ultimi due mesi da una campagna-stampa (cui sono seguiti un'iniziativa parlamentare e il boicottaggio dei suoi prodotti ad opera degli studenti inglesi) sviluppatasi a seguito della pubblicazione di questo libro a cura della Casa editrice Penguin Books. Pertanto i dirigenti della Distillers Co. Ltd. si sono visti costretti ad assumere impegni maggiori per l'erogazione di fondi ai fanciulli focomelici da talidomide: l'ultima loro proposta di cui sono informato (14 dicembre 1972) ammonta a 17 miliardi di lire pari a un capitale investito di 50 milioni per ogni bambino. Ma un gruppo di deputati, della maggioranza e della minoranza unite, sta adoperandosi per ottenere il doppio di tale cifra onde garantire ai piccoli focomelici quanto è indispensabile (protesi da cambiare di anno in anno, mezzi di locomozione, assistenza, ecc.) per alleviare almeno in parte la pena della loro esistenza.
In Germania Occidentale la Chemie Grünenthal ha dovuto comparire in un processo - il più lungo, come il lettore apprenderà in questo libro, dopo quello di Norimberga ai criminali nazisti - del quale ha tentato in ogni modo di evitare la conclusione e la sentenza, addivenendo infine all'impegno - contratto, non ancora mantenuto, ma certamente non più declinabile - di versare 21 miliardi di lire per i bambini focomelici tedeschi. Tutto ciò, sia ben chiaro, non basta a restituire quanto è stato tolto alla vita di un solo bambino né a concedere assoluzioni alla responsabilità di un intero sistema.

Ma in Italia, nemmeno questo è stato fatto, nulla di tutto ciò è avvenuto. Qui si ignora persino che siano mai esistiti e se sopravvivano tuttora bambini “talidomidici”. Qui le rare pubblicazioni che ne parlano sono scritte per i congressi e per le riviste scientifiche. Qui non si dice mai, pur sapendolo esattamente, quale madre ha preso quale prodotto. Qui si tace sempre, in ogni caso, il nome delle industrie produttrici. Qui nessuna autorità sanitaria promuove un'indagine ad hoc e ne pubblica i risultati. Qui, soprattutto, nessuno sembra aver chiesto alle sei sorelle farmaceutiche di farsi carico finanziario di quegli otto bambini: 1,3 bambini ciascuna.

Ma, forse, un bambino focomelico italiano vale meno o soffre meno del suo compagno svedese, inglese e tedesco. Oppure, non vale niente e non soffre più. O, forse, il caso suo e degli altri sette, se fosse divenuto pubblico, avrebbe portato alla luce la vicenda di altri. Quanti altri? E forse, allora, le industrie implicate e il mondo farmaceutico ne avrebbero troppo risentito e si sarebbero dispiaciuti. E ciò, in Italia, avrebbe creato a sua volta così tanti altri dispiaceri che otto bambini, ancorché focomelici, non se li immaginano nemmeno.

Sto forse suggerendo che l’intreccio di rapporti tra industria farmaceutica, amministrazione sanitaria e professione medica è, nel nostro paese, tanto fitto da deludere ogni tentativo di guardarlo in trasparenza? Forse è così, ma al di là di questo opaco spessore vedo, e ne sono colpito, queste date: il talidomide fu ritirato dalla vendita al pubblico della Germania Occidentale, della Svezia e della Gran Bretagna tra l’ultima decade di novembre e la prima di dicembre del 1961. Ma il nostro Ministro della Sanità che ne era informato, non sospese, nemmeno cautelativamente, la vendita delle specialità medicinali italiane contenenti il malefico farmaco fino all’estate del 1962. Cosa abbia significato per lui e per le altre parti interessate questo incredibile ritardo, io non so. Io so che per Giuseppina G., venuta alla luce in quel di Milano il 14 settembre 1962 da madre curata con talidomide durante i primi due mesi di gravidanza, cioè da metà gennaio a metà marzo 1962, essere italiana ha significato soprattutto questo: nascere con una focomelia atipica degli arti inferiori e superiori.

Ma già l'anno prima, il Ministro della Sanità si era concesso - invocando la prudenza! - un altro indugio, destinato a compiacere certa industria farmaceutica, che costò la vita di molti bambini oltre la paralisi di tanti altri. Questa gravissima denuncia, formulata pubblicamente dal Collettivo dell’Istituto Superiore di Sanità non è mai stata smentita. Si tratta di una livida storia, estremamente significativa, che deve essere conosciuta.

Riprendo i dati che seguono da un recente rapporto dell'Organizzazione Mondiale della Sanità.

 

Appare con evidenza, da un semplice sguardo alle cifre, che in Italia la poliomielite continuava a mietere migliaia di vittime ancora nel quinquennio che già la vedeva sconfitta e persino eradicata in altri paesi. Per capire come ciò sia potuto accadere bisogna ricordare che negli anni Cinquanta furono proposti e provati i primi vaccini contro la terribile malattia: ne va merito, per il primo, a J. Salk il quale mise a punto un vaccino costituito da virus uccisi, somministrabile per iniezione; per il secondo ad A. Sabin il quale preparò un vaccino costituito da virus attenuati, somministrabile per via orale. Estese prove dimostrarono chiaramente che il secondo vaccino è molto più efficace del primo nel proteggere i soggetti che lo ricevono, ed in particolare i bambini, contro la poliomielite che — si ricordi — è letale nel 10% circa dei casi e paralizzante negli altri.

Questa superiorità del vaccino orale ed il suo impiego positivo in grandissime popolazioni erano già noti nell'estate del 1960: se ne parlò ampiamente nel corso della Conferenza internazionale sulla poliomielite(18) tenutasi a Copenaghen nel luglio di quell'anno. Due mesi dopo, il 30 settembre, lo stesso professor Sabin lesse a Roma - proprio nell’aula di quell’istituto Superiore di Sanità che è l’aia tecnico-scientifica del Ministero omonimo - una relazione dal titolo “Risultati ottenuti in diverse parti del mondo nella vaccinazione di massa con vaccino antipolio vivo”. Tale relazione confermava pienamente i dati positivi dei quali il mondo medico internazionale aveva già avuto notizia, diceva come la vaccinazione orale di massa fosse già stata fatta nel 1959 in Cecoslovacchia e nel 1960 in Germania Orientale, in Polonia ed in Ungheria; aggiungeva che sempre nel 1960 oltre 70 milioni di persone risultavano già vaccinate in URSS col vaccino orale e che sarebbero diventate 198 milioni nel 1961; preannunciava per l’anno successivo la vaccinazione di massa negli USA ove infatti fu compiuta nel marzo 1961, così come nel 1962 in Belgio e in Gran Bretagna.

Il nostro Ministro della Sanità sapeva queste cose e d’altra parte sapeva che, nonostante si fosse cominciato a distribuire il vaccino di Salk alla popolazione italiana nel 1958, il nostro paese contava ancora, nel solo 1959, 4.110 nuovi casi di poliomielite dei quali 630 morti; 3.555 casi, dei quali 451 morti, sarebbero state le corrispondenti cifre per il 1960. Egli era dunque in grado di giungere a decisioni che altri governanti avevano già prese; era sollecitato a farlo dall’urgenza e dalle dimensioni epidemiologiche del problema in Italia; era confortato dal parere autorevole di medici, tecnici e scienziati.

Ma cosa avvenne, invece? La conferenza di Sabin, della quale esiste tuttora a Roma il testo dattiloscritto, non fu mai pubblicata, contro ogni consuetudine e nonostante la sua importanza. È pubblicato invece il discorso che di lì a pochi giorni il Ministro della Sanità rivolse ai pediatri italiani riuniti nella capitale:

...parlando oggi dinnanzi a così eletto consesso di specialisti di un ramo della scienza medica che riguarda proprio la prima infanzia, la più soggetta al morbo della polio, credo doveroso ricordare, come unico e diretto responsabile della tutela della pubblica salute, che la vaccinazione antipolio con vaccino vivo non sarà per ora autorizzata in Italia. Il Ministero della Sanità non può fare dei bambini italiani cavie da esperimento, come in verità sarebbero, data la fase tuttora sperimentale del vaccino vivo. Di conseguenza, il vaccino vivo non sarà per il momento registrato nel nostro paese, e neppure ne sarà autorizzata la fabbricazione a scopo di esportazione.

La prudenza del ministro, anzi di due ministri, è ampiamente dimostrata dal fatto che sì attese fino al 1964 prima di dare inizio alla nuova vaccinazione: quel “ora” e quel “momento” durarono così tre anni durante i quali in Italia si verificarono 9.509 casi di poliomielite: 1.078 vennero a morte e 8.431 rimasero paralizzati.

Ora il lettore ha una comprensione statistica dei dati contenuti nel recente rapporto dell’Organizzazione Mondiale della Sanità e che ho riprodotti a p. XXIII. Ma per una comprensione politica degli stessi può essergli non inutile conoscere altri fatti.

Nell'autunno 1960, quando A. Sabin veniva all'Istituto Superiore di Sanità ed il Ministro della Sanità andava al Congresso di pediatria, la produzione di vaccino antipoliomielitico era riservata a due industrie farmaceutiche: l’ISI (Istituto Sieroterapico Italiano) di Napoli e l’ISM (Istituto Sieroterapico Milanese) di Milano. La terza industria italiana specializzata nel settore “sieri e vaccini” è la SCLAVO (Istituto Sieroterapico Vaccinogeno Toscano) di Siena che, a quel tempo, si preparava a sua volta a produrre vaccino antipolio, ma precisamente del tipo Sabin.

Invece l’ISI e l’ISM producevano già, e soltanto, vaccino del tipo Salk: per esso avevano attrezzato gli impianti, di esso venivano riempiendo i magazzini. La produzione italiana era duopolistica ed il mercato era praticamente monopsonico dacché un acquirente soverchiava largamente gli altri: proprio il Ministero della Sanità. È questo Ministero che, quando ebbe notizia che lo SCLAVO aveva preparato del vaccino orale tipo Sabin, mandò un medico provinciale a sigillarne i flaconi per impedirne la distribuzione. Intanto continuavano la produzione e la vendita, l’ammortamento degli impianti, l’esaurimento delle scorte e l'accumulazione dei profitti dell’ISI e dell’ISM. È così che si arriva al 1964 quando un altro Ministro della Sanità, convinto anche lui, ma fortunatamente in un altro senso, che il suo dicastero “non può fare dei bambini italiani cavie da esperimento,” diede il via alla distribuzione del vaccino orale attenuato. Da allora la poliomielite è andata praticamente scomparendo: 20 casi in tutta Italia durante i primi nove mesi del 1971!

Si può, dunque, concludere che la grande maggioranza dei 9.509 casi di poliomielite verificatisi in Italia nel triennio 1961-1963 sarebbero potuti essere risparmiati - per capire cosa questo significhi bisogna fare lo sforzo di pensarli uno a uno, famiglia per famiglia, bambino per bambino, bara per bara, paralisi per paralisi - se un certo vaccino fosse stato tempestivamente sostituito da un altro. Ma il godimento di questo beneficio è stato posticipato subordinandolo a precisi calcoli di ammortamento... perché alle esigenze di profitto dell'industria che fino allora aveva prodotto il vaccino Salk corrispose un totale asservimento degli organi statali e del loro massimo responsabile, il Ministro della Sanità.

Queste due vicende italiane - sulle quali vorremmo che altri facesse maggior luce ed ottenesse qualche riparazione - sono, di fatto, una sola: esse presentano gli stessi protagonisti, coinvolgono medesime responsabilità, segnalano uguali pericoli.

Soprattutto, si risolvono insieme nella sofferenza irreparabile e tuttora irrisarcita di vittime disconosciute quando non addirittura reiette.

Sono vicende coeve e coerenti anche nella loro apparente autonomia e contraddittorietà: in un caso, quello del talidomide, si è lasciata - oltre ogni ragionevole limite - libera vendita a un farmaco malefico in attesa che madri e bimbi si facessero cavie e vittime per dimostrarne la tossicità pur già nota; nell’altro, quello dell'antipolio, si è impedito che un vaccino benefico venisse prodotto e distribuito onde evitare che madri e bimbi diventassero cavie e vittime della sua altrettanto nota... innocuità.

Ma contraddizioni come queste non reggono, di solito, alla prova di una semplice domanda: a chi è toccato ogni volta il sacrificio ed a chi il vantaggio? Ebbene, qui - cioè in un caso e nell’altro - non mi sembra dubbio che la salute pubblica è stata sacrificata al vantaggio del capitale privato, che la pena e l’infermità dell'uomo sono state pagate all’avidità e all’arroganza di un potere: quello dell'industria farmaceutica.

Tale potere è il vero tema di fondo del libro di Sjöström e Nilsson che ce ne parlano di pagina in pagina, pur nei modi di un racconto vero ed angoscioso. Aderendo alla stessa scelta, anche questa nota introduttiva ha voluto concentrarsi nel racconto e nel confronto di due esperienze italiane: soprattutto perché il lettore non fosse indotto a credere - come si vuole spesso da lui - che “queste cose” sono di altri luoghi e d'altro tempo.

Ma converrà segnalare allo stesso lettore che il potere dell’industria farmaceutica è realtà troppo complessa ed articolata, rilevante e incidente, perché ci si possa appagare di riconoscerlo e giudicarlo nelle sue manifestazioni più clamorose.

Occorrerà quindi andare oltre: nell'analisi strutturale di tale potere, dei suoi rapporti con quello politico, del suo intreccio con quello medico. Si dovrà individuarne la posizione nella città sanitaria, l’irradiazione nell’apparato assistenziale, la prelazione sull’attività scientifica.

Si dovrà, del farmaco stesso, analizzare il ruolo politico: come serva al medico e come il medico lo serva, per il servizio che entrambi devono rendere; quale immagine di sé proponga al malato e come di questi venga esso stesso deformando l’immagine; come si fletta ad ogni esigenza di gestione sociale e come della stessa suggerisca, fino a dettarli, i più repressivi modelli.

All'approfondimento di tali temi questa collana riserba già altri titoli.

Giulio A. Maccacaro
Gennaio 1973

 

 

Corvelva
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