Nel 1979, Valerio Gennaro si laurea in Medicina e Chirurgia all’Università di Genova per poi abilitarsi alla professione di medico chirurgo e specializzarsi in Oncologia, Igiene e Medicina Preventiva con orientamento in Sanità Pubblica.
Lo scenario è quello degli anni ‘80 e c'è tutto lo spazio per fare ricerca sulle malattie che coinvolgono la comunità, per esplorare il campo dei tumori, per far crescere e sviluppare la disciplina epidemiologica.
Gennaro sì è formato e perfezionato in Italia e all'estero. Ha studiato all’Istituto Superiore di Sanità (ISS), all’International Agency for the Research on Cancer (IARC, Lione, F) ed alla School of Hygiene and Public Health della Johns Hopkins University (JHU, Baltimora, USA), dove ha anche conseguito il Post Doctoral Fellowship in Environmental Health Sciences (1988-90).
È stato epidemiologo dei tumori presso l’Istituto Nazionale per la Ricerca sul Cancro di Genova (IST), nel ruolo di dirigente medico nel Dipartimento di Epidemiologia e Prevenzione (ora IRCCS, Istituto Ricovero e Cura a Carattere Scientifico, Policlinico San Martino a Genova). Ha seguito il Registro Tumori di Sevesl (anni ‘80), e poi il Registro Genova e Liguria.
Collabora con le istituzioni pubbliche e con i cittadini per la difesa dell’ambiente, della salute e della pace.
Dal 1992 è stato consulente della Procura della Repubblica su temi di epidemiologia occupazionale e ambientale e della Sezione Lavoro del Tribunale di Genova; dal 1994 è responsabile del Centro Operativo Regionale (COR) della Liguria del Registro Nazionale Mesoteliomi (RENAM, INAIL). E’ referente per Genova dell’Associazione Medici per l’Ambiente (International Society of Doctors for Environment, ISDE). È membro del Working Group IARC, dell’Associazione degli Epidemiologi e dell’Associazione Italiana dei Registri Tumori.
Io e il Dottor Gennaro ci sentiamo più volte al telefono: ne nasce una conversazione che sarà difficile riassumere in un solo brano ma ci proverò.
Il tema che mi preme comprendere meglio è la posizione della medicina preventiva e dell’epidemiologia di fronte alla vivisezione. I ricercatori la chiamano ‘sperimentazione animale’, ed è un gioco di parole per presentarla meglio, per dare alla faccenda una veste asettica, scientificamente irreprensibile, per mettere a tacere la realtà della violenza inutile. Irrita sentire la parola vivisezione. I ricercatori che propugnano l'ineluttabilità delle sperimentazioni su topi, gatti, cani, macachi e altri mammiferi. dichiarano di utilizzare antidolorifici e anestetici del caso, ma spesso e volentieri le indagini non confermano queste affermazioni.
Nel clima di ormai aperto conflitto tra pro test e antivisezionisti, associazioni di medici, psicologi, biologi, e Altro professionisti afferenti a OSA (Oltre la Sperimentazione Animale) e Limav (...) si trovano attaccate e denigrate - a suon di “ho il curriculum più lungo del tuo” - come se non potesse esistere assolutamente una possibilità di vedere oltre il modello noto. Eppure, nel mondo ci sono già esempi interessanti di strumentazioni all’avanguardia e da poco tempo, negli Stati Uniti, l’EPA ha deciso che nel prossimo futuro ci sarà sempre più spazio per le alternative.
Che cosa ne pensa a tal proposito il noto epidemiologo italiano Valerio Gennaro, fresco di pensione? Quali riflessioni può regalare noi professionisti anti vivisezionisti?
Partiamo dall’inizio. Prendiamo il discorso alla larga.
Chi è Valerio Gennaro? Come nasce la sua attività? Lo chiedo direttamente a lui. È gentile, disponibile, e soprattutto appassionato alla materia che ha amato e studiato per quarant'anni.
La tua esperienza in campo epidemiologico: come è cambiato l’approccio alla persona in campo epidemiologico. Che cosa lasci oggi ai tuoi giovani colleghi?
Cara Valeria, l'epidemiologia non riguarda tanto ‘la persona’, bensì la popolazione, la comunità. È un campo molto bello perché si cerca di prendere in esame il gruppo omogeneo, come si diceva negli anni ‘60 e ‘70. Attraverso questa disciplina si può capire come sta una comunità. E' una disciplina scientifica perché compie misurazioni, ha bisogno di standard, di criteri, di formule, di parametri, di valutazioni e i risultati devono essere verificabili e ripetibili. Mi sono innamorato dell'epidemiologia da subito, nonostante non fossi un fan della matematica. Ero appena laureato quando andavo in ospedale domandando a me stesso e al mondo “ma dov'è che si fa la prevenzione contro il cancro?”, perché ero rimasto affascinato dalle proposte di Veronesi, che ci aveva convinto che da lì a qualche anno, se avessimo lavorato in quella direzione, avremo sconfitto i tumori. Vedi, era la fine degli anni ‘70 e siamo ancora in una situazione penosa.
Ero laureato, dunque, e mi considero un privilegiato. Ho studiato questi temi, ho fatto anche la tesi sulla salute dei lavoratori, per capire se c'erano malattie disfunzionali, se alcune malattie erano più presenti in funzione di inquinanti specifici presenti in raffineria, come gli idrocarburi o altro, e così ho fatto la scoperta di una malattia professionale. Sto parlando del mesotelioma, una realtà che apparentemente non c'entrava nulla, non associata all’esposizione agli idrocarburi, cosa che invece produce leucemie, linfomi, e altri tumori come quelli cerebrali. Io avevo trovato questo eccesso di mesotelioma che non mi spiegavo. Erano solo cinque casi ma non me lo aspettavo. In questo modo abbiamo scoperto che c'era lo ‘zampino’ dell’amianto e anche lì ho passato un brutto quarto d'ora perché l’industria petrolchimica, quando ho pubblicato l’articolo a livello internazionale, mi ha attaccato. Un attacco educato; mi è stato detto che era una cosa strana, un tipo di tumore che avevo trovato solo io, che era un caso, cercando inoltre di attribuire i risultati a vecchie esposizioni, a occupazioni precedenti di questi lavoratori. Il bello del mondo scientifico è che c'è connessione. Uno scienziato canadese, il Professor Finkelstein, che stava studiando anche lui il problema dell’amianto e delle raffinerie mi ha dato manforte, quindi abbiamo potuto rispondere in modo scientifico a chi negava queste evidenze (ben sapendo di farlo). Epidemiologia è dunque la disciplina che aiuta a capire come sta una comunità rispetto a uno standard e quali sono le possibili cause, e quindi l’epidemiologo dovrebbe essere ‘arruolato’ nel formulare ipotesi su come riportare in salute le comunità. Non tanto quelle che l’epidemiologo ha studiato ma quelle successive, per limitare e non ripetere i danni.
Nel corso degli anni, purtroppo, questa disciplina è stata scientificamente depotenziata. È stata in modo elegante deviata verso la mera statistica. Abbiamo scoperto i danni da inquinamento, da campi elettromagnetici, da radiazioni, le devastazioni nell’ambiente con i pesticidi, i danni nell’ambiente di lavoro, eppure oggi quella che viene considerata interessante è soltanto l’epidemiologia clinica, ovvero quella che valuta efficacia e sicurezza dei farmaci. È stata eliminata l’epidemiologia eziologica, analitica, descrittiva, che è un campo altrettanto importante. Quella che cerca di descrivere in modo tempestivo ciò che accade in una comunità. Per esempio, valutando il numero dei nati pre-termine o sottopeso, tutte cose connesse alla salute, e che hanno sempre una quota inevitabile... ma ci sono quote evitabili. Se studi bene questo campo puoi capire perché alcune comunità hanno eccessi di mortalità, aborti, ricoveri ecc.
Nel corso degli anni, l’epidemiologia è stata pian pianino trasformata soltanto in statistica - che peraltro è utilissima, perché senza statistica non esiste epidemiologia. Il problema è che ci si limita a dare dei numeri senza farne tesoro. Senza interpretarli, analizzarli dal punto di vista sociale, economico e politico.
Ora la situazione è pessima. L’epidemiologia eziologica che studia le cause delle malattie non c'è praticamente più. C'è un simulacro. Parziale. Ci si limita a parlare di tumori e ci si dimentica delle altre malattie, e soprattutto delle loro cause evitabili, come quelle ambientali, l’inquinamento e tutto, facendo credere alla gente che prevalgono per importanza le cause genetiche. Quindi, se uno ha un tumore quasi diventa ‘colpa’ dell’ereditarietà. Oltre al danno queste persone subiscono anche la beffa.
Perché? Questo dobbiamo domandarci. Come se in qualche modo, il sistema sanitario volesse avere dei malati? Questo tipo di visione è collegata all’approccio vivisezionista… Alternative?
Per quanto riguarda gli esperimenti con animali, certamente il contributo che gli epidemiologi possono dare è riferito alla conoscenza delle cause delle malattie.
Perché non si studiano di più le popolazioni cercando di capire come mai alcune si ammalano e altre no, cercando di capire perché alcune hanno determinate malattie e non altre?
I due strumenti che l’epidemiologo usa sono proprio gli studi di coorte, studi di popolazioni ben definite, omogenee per vedere che cosa succede in quei gruppi nel corso degli anni. E poi ci sono gli studi caso-controllo, molto interessanti perché studiano il differenziale eziologico che c'è nel gruppo dei malati rispetto al gruppo di controllo. Questi studi aiutano a capire l’origine della malattia, se è distribuita in modo proporzionato o casuale. Nel corso degli anni vediamo se una popolazione esposta a un determinato fattore ne ha ricevuto un danno oppure no. Per questo tipo di approccio ci vuole tempo. Ci vuole rigore. Occorre pazienza…
Certamente, seguire la strada che indichi sarebbe un bel cambio di focus.
Sì, si può fare dell'altro prima di fare sperimentazione su animali. Anche perché questi, le altre specie, gli animali non umani, notoriamente sono diversi da noi. Prendere in considerazione la letteratura scientifica già esistente facendo delle meta-analisi ci permetterebbe di comprendere meglio il presente. Leggere e interpretare gli studi scientifici che già ci sono per ridurre il numero dei malati innanzitutto.
Oggi si parla di Alzheimer, sclerosi multipla, SLA… per queste e altre malattie abbiamo bisogno di sapere in modo aggiornato e completo se c'è stata una anticipazione dell’età di insorgenza, se è aumentato il numero di nuovi casi e se questi nuovi casi sono anche nei giovani, oltre ad avere un naturale aumento della prevalenza. Ma abbiamo le prove che c'è un aumento nell'incidenza nel corso degli anni e questo mi sembra ci sia un punto di partenza fondamentale.
Se noi vogliamo combattere una malattia, dobbiamo ovviamente ragionare e avere una descrizione oggettiva. Verificabile. Una descrizione che convinca gli scettici e partire da lì, per vedere come mai ad esempio nel corso degli anni noi assistiamo all'aumento del numero di nuovi malati che possono essere anche giovani? E allora tutto questo non spiega il fatto della ereditarietà, della familiarità o la casualità. Se noi abbiamo un aumento anno anno della incidenza, non della prevalenza (incidenza ovvero numero dei nuovi casi), ebbene c'è qualcosa a livello socio-ambientale e quant'altro che favorisce l'aumento dei malati. Non è quindi un problema solo di diagnosi? C'è un eccesso di diagnosi ‘finte’? C'è sovradiagnosi? O c'è realtà delle cause a livello socio ambientale?
È vero che dieci anni fa il numero di nuovi casi era percentualmente più basso a parità di età di ciò che possiamo registrare oggi? Se questo è vero ciò mostra che c'è stato qualcosa in questi anni che ha portato al punto in cui ci troviamo attualmente.
Quindi, per tirare le fila sul tema uomini e animali?
Se gli animali sono uguali a noi, allora banalmente perché usarli senza rispetto? Se sono diversi, a cosa serve davvero sperimentare su di loro? Non crediate che il mondo scientifico sia esente dalla corruzione. Sembra quasi che la ricerca attuale sia poco credibile. A volte si presenta come una ricerca di… finanziamenti. Come se lo scopo non fosse ridurre il numero dei malati, farli vivere meglio, e ridurre i costi nei bilanci personali e collettivi per quanto riguarda diagnosi cura e riabilitazione.
È una ricerca, quella di oggi, che ha dei problemi perché privilegia lo screening delle malattie anziché lo screening delle cause delle malattie, così come confonde le prevenzioni. La prevenzione primaria, soprattutto, è la più importante perché significa rimanere sani senza bisogno di nulla, evitando soltanto le cause delle malattie. Questa prevenzione, semplicemente… non si fa. Non si fa in modo sistematico. Basti pensare alla fallimentare lotta al fumo.
Per quanto riguarda l’epidemiologia, una disciplina che non richiede grandi costi, rispetto all'importanza che assume per gli uomini e per le donne, per le persone, i finanziamenti non sono stati e non sono facili da trovare. Per ricerche che prevedono animali da utilizzare in laboratorio, invece, si parla di milioni di euro ed è evidente il grande business che sta dietro questo tipo di approccio. Credo che il denaro potrebbe essere investito molto meglio per esplorare in modo sia descrittivo che analitico, quindi puntuale, le malattie.
Oggi gli studi epidemiologici possono essere fatti con grande accuratezza, in modo rigoroso. Eppure perché, per fare esempio, sulla sclerosi multipla non si riesce ad avere dati sulle differenze tra livelli, sui nuovi malati, prendendo in considerazione negli anni le popolazioni? Con questi dati potremmo essere già a metà dell'opera.
Le regioni spendono l’ottanta per cento dei bilanci nella diagnosi e cura e non nella prevenzione. Sembra, maliziosamente, che vogliano avere tanti pazienti ma non ridurre il numero di malati con la prevenzione. Perché c'è questo forte investimento nello screening delle malattie e non per diagnosticare le cause delle stesse? Fa troppa paura o è troppo comodo informare le persone su temi come inquinamento industriale e pericolosità delle sostanze che respiriamo, che mangiamo? Si anticipa la diagnosi e non si fa prevenzione, ed è certo che la prevenzione non ha bisogno di sperimentazione animale. Oltretutto, quando scegliamo noi il tipo di animale, c'è un vizio di fondo. E non è l’unico.
La ricerca come viene fatta oggi crea precarietà dei ricercatori pubblici. È una ricerca che ha ridotto alla povertà questi ricercatori. Li ha resi condizionabili, ricattabili, impauriti. Inoltre, non sono operativi in numero sufficiente per rispondere alle esigenze della popolazione. In questo contesto, la risposta alla domanda “perché si devono fare esperimenti con gli animali quando si potrebbe studiare di più le popolazioni umane?” è… abbastanza chiara.
Occorre investire sulle alternative. Speriamo per il futuro.
È come quando uno sbaglia mira… o quando si fa autogol. Uno scenario triste, davvero. Davvero speriamo che l’epidemiologia eziologica risorga più forte di prima!
Un grande grazie.