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L'industria farmaceutica investe in marketing il doppio rispetto alla ricerca

L'industria farmaceutica investe in marketing il doppio rispetto alla ricerca

La medicina è ormai un prodotto di consumo e siamo bombardati da notizie sull'ultima miracolosa cura di turno. Così negli ultimi anni anche le persone sane sono state trasformate in potenziali malati per vendergli qualche pillola

«Dottore, buongiorno, sto male. Cosa ho? Non è facile dire, ci provo». Il quadro clinico si infittisce di appunti: sintomi, valori di colesterolo, pressione, glicemia. Oltre ad aggettivi: stressato, svogliato, depresso. Ma non solo. Il copione prevede tre possibili scenari: il medico prescrive un elenco di analisi e controlli diagnostici; richiede la visita di uno specialista; passa alla compilazione della ricetta. Raramente succede che il medico sfugga a queste tre soluzioni e liquidi il paziente dicendogli: «Lei è sano come un pesce. Le sue sono ubbie da ipocondriaco».

In questo caso il malato immaginario ha pronto uno scenario di ricambio e cioè il pellegrinaggio da un medico all’altro alla ricerca di chi scoprirà il suo “problema”. E lo troverà senz’altro. Così come troverà chi gli prescriverà delle pillole. Spesso utili solo a chi le produce. La salute, come scrive Iona Heath nel suo saggio “Contro il mercato della salute” è ormai un prodotto di consumo. E insieme alla domanda di benessere, spesso alimentata da pubblicità mascherata da informazione, cresce la tendenza a medicalizzare tutto.

Se la medicina ha fatto negli ultimi decenni grandi progressi, la salute è nel frattempo diventata una merce e come tale prevede un’offerta. La domanda è spesso condizionata da un’industria farmaceutica che investe un terzo del bilancio complessivo in marketing, il doppio di quello che spende nella ricerca, come ricorda Marcia Angell in “Farma&Co”. Non passa giorno che dai mass media non venga proposta (promossa) l’ultima terapia risolutiva per questa o quella malattia (vera o presunta).

Ciò che conta, almeno a questo inducono a credere i messaggi che raggiungono i medici, e i pazienti, è che “l’ultima” terapia sia la migliore. Gli stessi specialisti sono inclini a ritenere sia la più efficace, anche se non risulta essere la più documentata dal punto di vista scientifico. Pregi e difetti per emergere hanno bisogno di tempo e mai come in questi anni (lo dimostrano i casi noti di Lipobay, Vioxx, Avandia, tutti e tre farmaci messi in commercio e poi ritirati per i gravi effetti collaterali) l’iter per l’approvazione dei farmaci ha subìto una discutibile accelerazione voluta dall’industria farmaceutica, in cerca di profitti rapidi, ma anche tollerata (favorita) dalle agenzie regolatorie, che dovrebbero vigilare sulla sicurezza dei medicinali.

Del resto, l’Agenzia europea per i medicinali (Ema), che Milano ha perso al sorteggio in favore di Amsterdam, la Food and Drug Administration (Fda) in Usa, per l’80 per cento sono finanziate dall’industria farmaceutica e le loro decisioni possono essere “condizionate” da un inevitabile conflitto di interessi. La mancanza di trasparenza e indipendenza da parte di chi dovrebbe svolgere il ruolo di “controllore” getta un’ombra sulla loro affidabilità. E, nonostante lo straordinario miglioramento delle conoscenze, noi ci troviamo oggi in uno stato di maggiore incertezza, come scrive Marco Bobbio, in “Il malato immaginato”. 

Se fino alla metà del secolo scorso ci si occupava solo di chi era malato, oggi le malattie si curano prima che si manifestino, si gioca d’anticipo convinti di poterle evitare tutte. E si trasforma chi è sano in malato. Comitati di esperti (con conflitti di interessi spesso non dichiarati) hanno man mano abbassato i valori per colesterolo e ipertensione, creando condizioni di pre-malattia, come la pre-ipercolesterolemia o la pre-ipertensione. Condizioni che ovviamente ampliano il numero di chi ricorre a farmaci.

Dubbi sono sorti sugli screening, offerti per prevenire patologie temibili come il cancro: via via che le tecniche diagnostiche si affinano aumenta il numero delle lesioni piccolissime individuate (talora di pochi millimetri) che inducono a trattamenti inutilmente invasivi. Nel caso della mammografia uno studio canadese, pubblicato sul British Medical Journal due anni fa e durato 25 anni, ha messo in dubbio che possa ridurre la mortalità per tumore al seno. Il lato oscuro del progresso tecnologico si chiama overdiagnosis: in persone che non presentano sintomi viene diagnosticata una malattia che non sarà mai sintomatica, né causa di mortalità precoce.

E l’eccessivo potere attribuito alla medicina comporta inevitabili rischi. Soprattutto se la scienza medica, come avviene oggi, si muove in un incrocio di poteri economici, sociali, intellettuali, e di carriere. Siamo immersi in una medicina che «corre veloce e non è più in grado di valutare con onestà i propri successi e insuccessi; in una medicina che utilizza strumenti diagnostici e terapeutici senza una completa conoscenza dei rischi e dei benefici; in una medicina che sta perdendo di vista il significato della peculiarità dell’incontro tra medico e paziente», scrive Bobbio.

Da metà a un terzo degli studi della ricerca biomedica non arriva alla pubblicazione perché non esiste obbligo di pubblicare le ricerche svolte. E gli studi con esiti negativi, denunciano i promotori dell’iniziativa AllTrials, hanno meno probabilità di essere pubblicati. La petizione lanciata da AllTrials chiede che tutti i trial clinici siano resi pubblici e disponibili ai ricercatori: la loro mancata pubblicazione porta a una perdita di informazioni vitali. Nel 2008 fecero scalpore le conclusioni di una ricerca coordinata dall’inglese Irving Hull, uscita sulla rivista online PloS: dopo aver acquisito dalla Fda i dati delle sperimentazioni cliniche (mai pubblicate) sugli antidepressivi di ultima generazione, gli Ssri o inibitori della ricaptazione della serotonina (tra cui il famoso Prozac, farmaco “cult” contro la depressione), il ricercatore concluse che il miglioramento nei pazienti era paragonabile all’effetto di un placebo, ossia un non-farmaco. Intanto, milioni di persone nel mondo ne hanno fatto uso.

Il settore farmaceutico è uno dei pochi, nonostante la crisi economica, che non conosce flessioni. Non tanto grazie alla scoperta di nuove molecole, come sostiene Ben Goldacre in “Bad Pharma”, quanto alla promozione su cui i colossi farmaceutici destinano ogni anno decine di miliardi di dollari. La pressione si esercita con viaggi, inviti a congressi, regali, campagne di informazione, finanziamenti a società scientifiche e associazioni di malati. «Molti medici sono arrivati a considerare “normali” le proprie relazioni pericolose con le aziende farmaceutiche», scrive Goldacre.

I nodi da sciogliere, tra medicina e potere, individuati negli anni ’70 da Giulio Maccacaro, restano attuali. E non sono chiusi all’interno della medicina ma esprimono un rapporto di potere complessivo. I medici e la medicina non costituiscono un mondo a parte, una sorta di area protetta. Perché la medicina è diventata a tutti gli effetti un settore economico. E per citare un celebre aforisma di Aldous Huxley, autore de “Il Mondo Nuovo”, «la medicina ha fatto così tanti progressi che ormai più nessuno è sano».


Fonte: http://espresso.repubblica.it/attualita/2017/12/05/news/l-industria-farmaceutica-investe-in-marketing-il-doppio-rispetto-alla-ricerca-1.315133

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