Articolo tratto dal Blog "Il Pedante" del 05 ottobre, 2018
In appendice all'articolo precedente e nel solco tematico della protesta - utile o meno - che mi ha spinto a chiudere il blog, aggiungo qui qualche considerazione analitica e di contesto sul citato e pendente disegno di legge n. 770 cofirmato dai capigruppo Stefano Patuanelli (M5S) e Massimiliano Romeo (Lega) e dai membri della Commissione igiene e sanità al Senato Pierpaolo Sileri (M5S), Maria Domenica Castellone (M5S) e Sonia Fregolent (Lega) recante "Disposizioni in materia di prevenzione vaccinale". Il testo, presentato il 7 agosto, è assegnato alla 12ª Commissione permanente (Igiene e sanità) del Senato in sede redigente. Ciò significa che eventuali emendamenti alla proposta saranno valutati e approvati in seno alla sola Commissione, riservando all'Assemblea il voto sul testo finale. La discussione ha avuto inizio il 2 ottobre.
Si è già documentato e deplorato il fatto che l'«obbligo flessibile» normato dalla proposta «supererebbe» l'obbligo della Lorenzin in senso tutto accrescitivo, esattamente come una potente auto sportiva supererebbe un'utilitaria in autostrada: mira cioè a estenderlo nelle applicazioni e nelle sanzioni fino a renderlo potenzialmente universale. Guardandosi bene dal mettere in forse l'abominio di un trattamento sanitario obbligatorio preventivo - quindi non motivato da urgenza - e di massa, il DDL n. 770 ne accetta in pieno la ratio rilanciandola su tutte le fasce di età («per determinate coorti di nascita») in caso di «compromissione dell'immunità di gruppo» (art. 5, comma 1). In questi casi, alla «sanzione amministrativa pecuniaria da euro 100 ad euro 500» (ibi, comma 3) aggiungerebbe la possibilità di escludere gli inadempienti dalla «frequenza delle istituzioni scolastiche del sistema nazionale di istruzione» (ibi, comma 4) e quindi anche dalle scuole dell'obbligo e superiori, arrivando là dove il precedente governo non aveva osato arrivare. Giacché, infine, «gli obiettivi da raggiungere su tutto il territorio nazionale» sarebbero quelli fissati dal Piano nazionale di prevenzione vaccinale (PNPV) adottato «su proposta del Ministro della salute, sentito l'Istituto superiore di sanità» (art. 2), il numero delle vaccinazioni da imporre mediante obbligo non sarebbe più necessariamente limitato alle dieci previste dalla Legge Lorenzin, ma potrebbe estendersi anche ad altre patologie infettive secondo le priorità fissate dai tecnici e i livelli di copertura registrati.
Il nuovo DDL finirebbe così per surclassare (non «superare») la coercizione ex Lorenzin espandendola in ogni direzione possibile: a) delle fasce di età e quindi del numero di persone coinvolte, b) delle sanzioni applicabili e c) delle vaccinazioni assoggettabili all'obbligo. Fatte queste premesse, l'auspicio di chi scrive non può che essere quello di una sua morte silenziosa e prematura, e che mai possa lasciare le scrivanie di chi l'ha concepita. Un esito tanto più necessario se si misura l'intenzione di intensificare ulteriormente l'imposizione lorenziniana con le posizioni avverse all'obbligo già espresse del ministro della Salute in carica e, più ancora, dal segretario della Lega Matteo Salvini, che anche in un recente comizio ha ribadito quanto sia «sacrosanto per tutti i bimbi il diritto di andare a scuola. Perché non è civile un Paese che nega questo diritto». Avendo però aggiunto che «al governo siamo in due», resta da chiedergli perché tra le firme in calce a una proposta che nega esplicitamente il diritto di «frequenza delle istituzioni scolastiche del sistema nazionale di istruzione» appaia anche quella del suo capogruppo al Senato.
Se una revoca del testo non fosse resa possibile dalle circostanze, sarebbe almeno da stralciare con urgenza la previsione abnorme della sospensione da scuole e asili: sia per non attentare con certezza a un diritto-dovere costituzionale (art. 34) sulla base di eventualità tanto paventate quanto remote, sia per spuntare gli artigli di un meccanismo di coercizione e discriminazione che non ha precedenti nella storia repubblicana. Per quanto auspicabile in subordine, questo risultato lascerebbe comunque intatto l'impianto di una legge profondamente sbagliata e pericolosa nei suoi fondamenti scientifici e di diritto, il cui precedente aprirebbe la porta alla possibilità di abusi che, poco o nulla giovando alla salute pubblica, metterebbero ulteriormente a rischio la coesione sociale e la fiducia nelle istituzioni. Analizzare i modi in cui ciò avverrebbe è utile anche nella desiderata ipotesi di un'inversione di rotta dei decisori, per trarne un monito più generale sui mali di un legiferare «tecnocratico» applicato a un caso concreto.
Come ogni legge di ispirazione «tecnica», anche il DDL n. 770 prefigura un meccanismo di governo «algoritmico» e lineare. Il provvedimento poggia sul doppio pilastro informativo di un PNPV quinquennale contenente il calendario, gli obiettivi e le raccomandazioni in materia di prevenzione vaccinale, e della costituenda Anagrafe vaccinale nazionale dove confluiscono i dati relativi allo stato vaccinale della popolazione. Incrociando i due flussi di informazione, le autorità sanitarie dovrebbero essere in grado di monitorare la rispondenza dei comportamenti vaccinali agli obiettivi fissati in tempo quasi-reale e con una precisione «granulare» secondo età, sesso, localizzazione geografica, condizioni cliniche ecc. per intervenire «chirurgicamente» nelle situazioni di mancato raggiungimento dei target. Sarebbe in teoria possibile, ad esempio, attivare l'obbligo HPV per i soli preadolescenti maschi di una provincia, o quello antinfluenzale per i soli soggetti anziani di una regione.
I «piani straordinari d'intervento» comportanti l'obbligo sarebbero varati - unica novità davvero positiva - «su proposta del Ministro della salute previa deliberazione del Consiglio dei ministri, sentiti l'Istituto superiore di sanità... con decreto del Presidente della Repubblica», cioè tramite una decisione politica e un iter non esattamente «snello» né tanto meno automatico. Ciò dovrebbe garantire un margine di discrezionalità politica che resterebbe tuttavia assoggettato alla «dura legge» del numero, integrando disciplinatamente il modello del «vincolo esterno» dove gli organi politici decidono il come ma non il cosa, e un parametro solo simbolicamente correlato all'obiettivo - come già la soglia di spesa pubblica in deficit, o il rapporto deficit/PIL - assurge a totem dell'azione legislativa. Il vizio di metodo sotteso a questa visione monofattoriale e meccanica, più vicina alle dinamiche di un videogioco che alla complessità di un fenomeno biologico e di massa, si riflette puntualmente nei suoi strumenti.
Piano nazionale di prevenzione vaccinale: il vincolo esterno
Nella proposta qui esaminata, gli obiettivi di copertura vaccinale dettati dal PNPV costituirebbero la fonte unica dell'intervento legislativo, che si vedrebbe così privato della facoltà di deliberare su ogni singolo caso accogliendo criteri scientifici più ampi e anche non scientifici, secondo le molteplici fonti del diritto. La tabe tecnocratica si rivela qui nell'illusione di «sterilizzare» la fallibilità del processo decisionale politico assoggettandolo a un criterio che si reputa a-politico, traente origine e legittimazione da sé stesso e dall'«evidenza». Ma, semplicemente, ciò non è possibile. L'elaborazione di obiettivi di diffusione di una profilassi, e più a monte il fatto stesso di eleggere quegli obiettivi e quella profilassi, riflette essa stessa una visione del mondo e una gerarchia di priorità e di interessi. Nel 2015, il celebre epidemiologo Vittorio Demicheli denunciava ad esempio sulle pagine del Sole 24 Ore che «il calendario riportato all'interno del[l'allora] Piano nazionale di vaccinazione è la copia fedele del "calendario per la vita" sponsorizzato dalle industrie del farmaco». La vicenda, al netto di ogni giudizio, ci ricorda che le dialettiche e gli incerti scippati alla politica si ripresentano inevitabilmente ai piani superiori della tecnica la quale, nel farsi decisione, diventa essa stessa politica a dispetto dei suoi paludamenti.
In punto di merito, molti osservatori distratti hanno apprezzato il «buon senso» della proposta n. 770 senza però minimamente conoscere né gli ambiziosi requisiti del PNPV che dovrebbero assurgere a legge, né la situazione in cui ciò dovrebbe avvenire. Scorrendo il testo oggi in vigore ci si renderebbe infatti conto che l'applicazione dell'obbligo ai «significativi scostamenti... tali da ingenerare il rischio di compromettere l'immunità di gruppo» innescherebbe un aumento delle inoculazioni così vertiginoso da fare impallidire il dettato lorenziniano. Abbozziamo nel seguito una simulazione incrociando i dati più recenti sulle coperture e le raccomandazioni del PNPV 2017-2019:
La simulazione assume il normal case scenario, quello cioè in cui un governo in carica si attenesse alle disposizioni dell'art. 5. Certo, può darsi che le raccomandazioni del nuovo PNPV introdurranno una gradualità delle soglie, ma ciò sposterebbe il problema senza risolverlo. O ancora, che un esecutivo attiverà solo parzialmente i piani straordinari giustificati dagli scostamenti, ma ciò trasformerebbe il diritto allo studio e all'inviolabilità della persona in una mera concessione che deroga alla legge per la «bontà» - sempre revocabile e sempre assoggettabile a ricorso - di qualcuno.
La «flessibilità» dell'obbligo in parola si rivela insomma essere quella di una vescica vuota che si adatta elasticamente al suo contenuto. Mentre promette di flettersi alle «circostanze», alla «situazione» o - come qualche candido ancora crede - alle «epidemie», segue in realtà il profilo di una raccomandazione tecnica che, nell'espandere al massimo gli obiettivi, espande al massimo la guaina normativa e impositiva che vi aderisce. Scopriamo così che i vaccini obbligatori per l'infanzia e l'adolescenza potrebbero salire dagli attuali dieci a quindici, e quelli per la terza età da zero a tre, senza dire ciò che toccherebbe agli «esercenti le professioni sanitarie» la cui menzione distinta (art. 5, comma 1) sembra suggerire che sarebbero oggetto di obblighi supplementari e dedicati.
Immunità di gruppo: la politica del numerino
Secondo la teoria dell'immunità di gruppo (o di «gregge»), la circolazione di un agente infettivo all'interno di una comunità può essere fermata se una sufficiente percentuale dei suoi membri è immunizzata contro quell'agente. Al netto di altre raccomandazioni qualitative, gli «obiettivi» del PNPV che dovrebbero informare gli interventi straordinari dell'esecutivo coincidono appunto con le soglie percentuali di copertura vaccinale per scongiurare la «compromissione dell'immunità di gruppo». Il meccanismo di protezione dalla malattie infettive prefigurato dal DDL si riduce così al monitoraggio di un unico parametro sposando una visione rigidamente unidimensionale del problema che si presta a più di una critica.
Sorvolando sulle diatribe scientifiche circa la determinazione delle soglie, i tassi e la durata delle sieroconversioni e la persistenza di fenomeni epidemici per alcune malattie anche in supero delle soglie di sicurezza (come qui, qui o qui), il problema più ovvio è di natura politica. Che si debba raggiungere per tutti gli antigeni la copertura massima raccomandata in letteratura (nel PNPV è tutto un ossessivo ≥ 95%, ma vedi tabella sotto) e non piuttosto modulare gli obiettivi secondo la presenza, probabilità e pericolosità di ciascuna malattia, è una decisione che non può sottrarsi al dibattito democratico. La vaccinazione è prima di tutto - e in certi casi esclusivamente - un utile strumento di protezione individuale. Farne sempre e automaticamente scaturire l'obiettivo «epico» di sopprimere le malattie nel Paese o nel mondo sottende, anche quando ciò sia scientificamente provabile, una progettualità esclusivamente politica che per le proporzioni della sua ambizione e i mezzi drastici che reclama, deve essere condivisa e discussa caso per caso coinvolgendo la più ampia platea democratica, non relegandola nelle tabelle di un documento tecnico.
Soglie di «immunità di gruppo» (da Paul E.M. Fine. Herd immunity: history, theory, practice, Epidemiol. Rev. 1993. 15;2: 265-302).
Nel merito, la scelta di subordinare azioni di prevenzione e sanzione di gravità inaudita a un singolo parametro dovrebbe essere corroborata da una correlazione forte e lampante tra i livelli di vaccinazione e i contagi. Ma questa correlazione, quantomeno ai livelli di copertura già raggiunti, è tutt'altro che ferrea, ad esempio se si incrociano i dati regionali italiani per alcune malattie. La misura dei contagi dovrebbe essere quindi indagata e contenuta allargando l'analisi a una pluralità di fattori per produrre strategie articolate e mirate secondo ciascuna realtà. Di tutto ciò non c'è però traccia nel DDL in discussione, che si accontenta invece di imporre, con strumenti inediti di coercizione, il raggiungimento di un numero one-size-fits-all promettendo di subordinare un vantaggio sanitario incerto alla certezza del sacrificio della libertà, dei diritti costituzionali e dell'inclusione sociale di milioni di persone.
La «politica del numerino» che si fa totem, i cui fallimenti si sono già osservati in altre e famose decisioni pubbliche (in primis quelle riguardanti gli obiettivi di bilancio pubblico), tradisce la volontà ultra-riduzionista e «cibernetica» di squalificare fenomeni complessi riducendoli a variabili di facile comprensione, riducendo così a cascata il politico a «guardiano del numero», sostituibile prodromo di un'intelligenza artificiale.
Anagrafe vaccinale nazionale: la volontà di potenza
Molti osservatori hanno salutato con favore l'istituzione di una «anagrafe vaccinale» che il DDL in discussione eredita integralmente dal decreto Lorenzin (art. 4-bis), mutandone il nome in «anagrafe vaccinale nazionale» (AVN, art. 4). La costituenda AVN servirà a «monitorare l'attuazione dei programmi vaccinali sul territorio nazionale» registrando «i soggetti vaccinati e da sottoporre a vaccinazione, i soggetti di cui all'articolo 1, commi 2 [immunizzati a seguito di malattia naturale] e 3 [esonerati o differiti per motivi di salute] del presente decreto, nonché le dosi e i tempi di somministrazione delle vaccinazioni effettuate e gli eventuali effetti indesiderati».
Va premesso che i dati sulle coperture vaccinali per luogo e coorte di nascita sono già noti da anni all'amministrazione centrale (qui quelli di infanzia e adolescenza), come anche le possibili reazioni avverse e i casi di malattie sottoposte a vigilanza. A regime, e purché sia ben progettato, uno strumento come la nuova AVN potrebbe dunque sì facilitare «l'elaborazione di indicatori» (ibi, comma 3) e «la raccolta e lo scambio di informazioni con gli organismi europei... internazionali» e nazionali (ibi, comma 4), ma non aggiungerebbe molto in termini informativi. Se il problema fosse l'inefficienza della raccolta e trasmissione dei dati in carico alle amministrazioni locali, sarebbe invece facile prevedere, in analogia con altri settori già investiti dal furor di portali e "big data", che l'introduzione di nuovi oneri e procedure comporterebbe altri aggravi burocratici, e quindi inefficienze.
Il problema fondamentale è però un altro. Mentre promette di essere un registro di dati sanitari per migliorare la salute pubblica, l'AVN raccoglierebbe in realtà un elenco di «soggetti» (nome, cognome, codice fiscale) per monitorarne non tanto le condizioni cliniche, ma la loro adesione ai «programmi vaccinali sul territorio nazionale» e, quindi, i motivi della loro eventuale mancata adesione. Servirebbe cioè a sorvegliare l'adempimento di un obbligo di legge - ancorché «flessibile», si è visto in che miusra - superando i residui incerti delle comunicazioni tra gli enti. Ciò, data la sua utilità statistica tutto sommato blanda, avvicinerebbe l'AVN più a uno strumento di polizia sanitaria grazie al quale sarebbe possibile individuare e sanzionare in tempo reale non già determinate categorie di individui, ma ciascun singolo renitente all'atto vaccinale.
Nel contesto di un obbligo che promette, salvo modifiche, di espandersi notevolmente oltre a quanto già imposto dalla norma in vigore - nell'ordine di milioni di nuove dosi ogni anno - e dell'entità delle sanzioni previste, l'adozione di questo strumento sembra promuovere un ulteriore e deciso slittamento dalle politiche di informazione e condivisione a quelle di una coercizione senza scampo, spalancando la porta a una medicalizzazione «cieca e sorda» potenzialmente senza fine perché non più bilanciata, anche nei suoi rischi, dalla critica e dall'obiezione di cittadini e operatori.
La «volontà di potenza», ultimo stadio della tecnocrazia, sposta l'intero peso dell'azione politica sul lato della sorveglianza e della repressione per liberarla dalle resistenze di una base popolare identificata come «nemica del progresso» e non già, secondo Costituzione, mandante supremo di quell'azione. Essa tende così al sogno di un governo ontologicamente totalitario in cui sia possibile identificare e rimuovere senza sforzo ogni singola eccezione o stonatura grazie alla capillarità degli strumenti elettronici in rete: dal controllo delle comunicazioni via internet alla rilevazione automatica delle conversazioni, dalla schedatura o blocco delle spese «cashless» alla videosorveglianza diffusa, dal tracciamento GPS all'integrazione dei database per accedere ai dettagli della vita di ciascuno «con un click». Questi strumenti, per l'enorme potere che concentrano nelle mani di pochissimi, e in un contesto già irresistibilmente vocato all'introduzione di sempre nuove coercizioni, dovrebbero essere limitati alle sole applicazioni di massima urgenza e necessità. Non sembra essere questo, francamente, il caso di una nuova anagrafe vaccinale nazionale.
Ma dipende dai punti di vista. E dagli scopi.